Non è stato facile indossare i panni di così tante persone, ma non lo è mai…
Con un pizzico di orgoglio e vanità
Questo del 2023 è stato giudicato il Salone del libro migliore degli ultimi anni, successo enorme di pubblico e vendite più che raddoppiate. Con oggi si conclude. Come per ogni edizione ci saranno, a posteriori, pareri favorevoli e contrari, perché noi italiani siamo fatti così, dobbiamo sempre trovare i difetti in ciò che abbiamo per poi rammaricarci nel caso in cui iniziative delle quali non dovremmo fare altro che vantarci ci vengono scippate da altre città o nazioni. Io personalmente l’ho trovato travolgente, nel senso che c’erano talmente tanti visitatori da rischiare di venire letteralmente travolti. Si entra in una centrifuga di eventi, presentazioni, conferenze e se ne esce stirati a puntino, oltre lo specchio, se si è stati abbastanza bravi da concentrarsi su ciò che vale veramente la pena ascoltare. Quest’anno, per me, è stato il Salone del mio ultimo libro: 2020. Quaranta voci da un isolato frattempo, Pathos Edizioni, appena pubblicato. E allora, anche se bisogna essere coscienti di essere un ago in un pagliaio, una goccia infinitesimale nel mare magnum dell’editoria, vedere il proprio ultimo bambino di carta esposto è sempre una grande e bellissima emozione. 2020 ha avuto una lunga e sofferta gestazione. Si tratta di 40 racconti brevi, alcuni brevissimi, illustrati da Giorgio Lusso, Gianni Audisio, con la collaborazione di Irene Zanotto e Marco Marello. L’epilogo è di Ilaria Francesca Martino, la prefazione di Sabina Guidotti. Ve ne parlerò, poco alla volta… per ora ne annuncio la nascita con un pizzico di orgoglio e vanità.


Da destra verso sinistra: Gianni Audisio, Giorgio Lusso e io

Le dediche, pensate… sempre
Papaveri rossi

– Che pace, però, c’è qui… vero?
– Beh, ci credo, siamo in un cimitero!
E siamo scoppiate a ridere come se il tempo non fosse passato, come se indossassimo ancora i jeans a zampa di elefante e la vita alta (tornati di moda più volte) che compravamo insieme, la maglietta corta appena sopra l’ombelico, i capelli lunghi appena sotto le scapole, la vita tutta da decidere. Noi che, manco a farlo apposta, avevamo lo stesso nome, lo stesso soprannome, i fidanzati omonimi come le nostre storie che pareva camminassero a braccetto perché potessimo consolarci a vicenda, quando ci sembrava che le nostre certezze andassero a rotoli. Ieri il cielo era grigio di nuvole e pioggia che aspetta da mesi a bagnare la terra, ogni volta ci ripensa e torna indietro. Per molti andare al cimitero è un atto dovuto, per altri una consolazione, per noi due un appuntamento annuale che ci consente di trascorrere, da sole, una manciata di ore durante le quali ripercorriamo un po’ le nostre vite come i vialetti del cimitero, andando avanti, indietro, e poi di nuovo avanti perché ogni volta non ricordiamo bene la strada nel dedalo di vie e zone e sottozone. Andiamo a trovare le nostre nonne e madri, ricordandoci l’un l’altra com’erano realmente, come ci apparivano e come adesso, in fondo, cominciamo a ritrovarci nei tratti somatici, nelle parole che ci dicevano, nelle loro malinconie per noi incomprensibili perché a 16, 17 anni non si ha ancora la percezione che la vita è poco più di una fucilata. Passeggiamo l’una accanto all’altra, con due mazzolini di fiori freschi stretti tra le mani, e parliamo come quando ci confidavamo i nostri segreti tra una versione di latino e una lezione di filosofia da ripetere a voce alta. Poi, all’improvviso, rimaniamo incantate da una moltitudine di papaveri rossi che sono cresciuti ribelli nei campi dove c’è poco passaggio e l’erba è alta, vicino a quel tuo nonno che non si capisce più dove sia andato ad abitare sino a che troviamo una lastra di pietra:
– Guarda… è qui! Il cognome è lo stesso, si legge anche il nome, aspetta… G i u s e p… p i n a
– Eh, peccato che mio nonno si chiamava Giuseppe
ed eccoci di nuovo lì, davanti al Liceo, belle come il sole a ridere e canticchiare una canzone di Guccini e qualche strofa di De André.
– Dai, facciamoci una foto con i papaveri… sono splendidi!
– Va bene, ma non la facciamo vedere a nessuno, non la pubblichiamo!
– Certo! E’ nostra, solo nostra! Dai… sorridi…
“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia all’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi”
Il gelato e la sedia

Si chiama + Di un gelato e si trova tra la Galleria Subalpina e Piazza Carlo Alberto. E’ una piccola gelateria, ma è anche qualcosa di più, come il nome suggerisce. Se desideri prendere soltanto un ottimo caffè accompagnato da una mini, ma proprio mini cialda ripiena di panna freschissima o gelato alla crema, salti la coda, sempre molto lunga, dei golosi ed entri subito nel girone dei viziosi! Mi capita sovente di fare una sosta qui per prendere un caffè e poi sedermi nel dehor in via Cersare Battisti. Da lì si vede un angolo della piazza, il passeggio di turisti con il naso all’insù, le biciclette che fanno lo slalom per non abbattere le persone come birilli e spesso si sentono anche musicisti di strada che si esibiscono sotto i portici o ai piedi del monumento equestre di re Carlo Alberto di Savoia. In questi giorni di primavera esplosa, l’erba delle aiuole è verde brillante e c’è una folla multicolore di persone sedute ai tavolini dei vari locali che si affacciano sulla piazza. Non fossi certa di essere a Torino, potrei tranquillamente trovarmi in qualche angolo romantico di Parigi dove si respira musica ovunque, anche nei sotterranei dei Métro. Si sono seduti al tavolino con i gelati stretti tra le mani. Padre, madre, figlio. Il bambino, 3,4 anni, è vestito come il padre in miniatura. Blue jeans, camicia azzurra Oxford, un paio di occhiali da vista rotondi sul piccolo naso, è posizionato tra i genitori e si sta ingegnando nel tentativo di non sporcarsi mentre mangia il gelato (fragola e cioccolato) dentro ad una piccola coppetta poggiata sul tavolino, sotto gli occhi vigili della mamma e quelli distratti del papà che cerca di mostrare un video alla moglie, per nulla interessata. Non ho fatto caso alla dinamica dei fatti, in realtà sono rimasta solo colpita per alcuni istanti dalla compitezza del piccolo uomo, ma poi ho distolto lo sguardo. Da lì a poco si consuma il ‘dramma’. Sento il tono acido di ‘madre’: “Ecco! Ma insomma, è mai possibile che se non faccio tutto io, nessuno fa niente! Sai che c’è? Me ne vado e aggiustatevi!” Velocemente ricostruisco l’accaduto: nei pochi istanti di distrazione di ‘madre’, ‘figlio’ ha fatto cadere un cucchiaino sporco di gelato (non il suo che brandisce ancora ben stretto nella piccola mano) sui jeans, nell’unico spazio non coperto dai tovagliolini di carta posizionati da ‘madre’, scomposti da una folata di vento. Il piccolo è rimasto a bocca aperta e gli occhi sgranati, incapace di replicare. ‘Padre’, invece, un po’ stupito dalla sceneggiata della moglie, dopo alcuni istanti urla: “Ma dove vai? Dai, su, aspettaci!” Solo allora ‘figlio’ emette un cinguettio: “Mamma, aspetta! Mamma…” scendendo dalla sedia e lasciando la sua coppetta di gelato, quasi intonsa, sul tavolino e la sedia vuota. A quel punto ‘padre’ prende per mano ‘figlio’, gli pulisce le manine sporche di cioccolato e si allontana alla ricerca della madre perduta. Che cosa mi ha colpito di questa situazione? Lo stupore del marito e del bambino. Non si aspettavano che la signora li mollasse sui due piedi, il marito non pensava che la moglie fosse esasperata sino a questo punto, il piccolo non ci ha pensato un attimo ad abbandonare il suo gelato, non ha fatto capricci, era semplicemente incredulo. “Come posso aver fatto arrabbiare così tanto la mamma per una minuscola macchia di gelato sui pantaloni?”, deve aver pensato senza trovare risposta. Perché non c’è una risposta. C’è che spesso i bambini pagano un prezzo molto alto rispetto alle loro ‘malefatte’, c’è che le donne a volte sono troppo stanche, ma non si possono permettere di fermarsi perché se lavoro esiste che non conosce ferie, mutua, permessi è quello della madre. C’è che dovremmo imparare a mostrare prima le nostre debolezze, stanchezze, fragilità, paure, invece di rivestire il ruolo di un’eroina per poi crollare di fronte ad un minuscolo cucchiano di gelato. Mi auguro che ‘padre’, ‘madre’, ‘figlio’ si siano ‘ritrovati’ e che figlio dimentichi in fretta quegli attimi in cui si è sentito perduto, ma non ho molte speranze, se penso che mio figlio, ormai adulto, ancora oggi ricorda quando gli ho rotto, per sbaglio, uno yo-yo durante uno di quei momenti di fragilità incontrollata. 🙂
Del tempo
E’ la mania di mettere il carro davanti ai buoi, di ambire a raggiungere la meta sottovalutando il viaggio, di anticipare il tempo, di pensare al poi, al se, al quando, al ma. E’ tutto questo che ci fa vivere malamente. Se c’è una cosa che ho imparato nel visitare certi luoghi è il differente modo di percepire il tempo oggettivo, ma soprattutto quello interiore. Fu Henri Bergson, nel suo Saggio sui dati immediati della coscienza, a dividere per la prima volta il concetto di Tempo in oggettivo e percepito. La durata interiore non è altro che il modo in cui la nostra mente percepisce il trascorrere del tempo legato alle nostre emozioni, agli stati d’animo, anziché alle leggi fisiche. La soggettività del Tempo introdotta da Bergson ispirò poeti, pittori, registi, scrittori che si impegnarono per rappresentarla. “Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico: le passioni che proviamo lo dilatano, quelle che ispirano lo restringono, e l’abitudine lo riempie.” scrisse Proust ne La recherche du temps perdu. La scoperta, alla fine della sua opera monumentale, è che la vera vita dell’uomo è quella interiore e che la totalità del tempo vissuto è composta di pensieri, desideri, ricordi, esperienze interiorizzate ed inalienabili. Il tempo è “secreto” dalle persone. Il caldo insopportabile di quei paesi che sono al limite del deserto predispone all’inoperosità o per lo meno alla riduzione al minimo di qualunque attività che possa essere svolta alle prime luci dell’alba o dopo il tramonto. E’ allora che sbucano fuori le persone che, in alcuni casi, vivono proprio in grotte scavate sotto terra con cunicoli che le collegano e pozzi d’acqua ricavati negli spiazzi dove confluiscono più ‘trincee’. I turisti si ostinano a camminare sotto il sole cocente, scoprendosi anziché coprirsi, solo un cappello per evitare colpi di calore, bibite fresche costosissime al posto del tè caldo alla menta che, invece, si dovrebbe bere per compensare la temperatura corporea con quella esterna. E’ qui che ho compreso come queste popolazioni percepiscono il trascorrere del tempo, qualcosa contro cui non è possibile lottare, come il caldo feroce, al quale si abbandonano senza opporsi. Un concetto che dobbiamo accettare, con il quale dobbiamo fare la pace. Non è il tempo che si muove, ma siamo noi a muoverci. Le temps ne s’en va pas, mais nous nous en allons. Capisco allora perché sono sempre lì, su quella panchina con il nastro rosso. “Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.” (Borges)

Le mani

“Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti strumenti e organi e il disegno invariabile della natura nel distribuire gli organi consiste nel dare all’animale quanto sia in grado di usare […]. Infatti è un piano migliore quello di prendere una persona che sappia suonare il flauto e poi darle un flauto, piuttosto che prendere uno che possieda un flauto e insegnargli poi a suonare. Considerando quindi che tale è il corso migliore delle cose, e che di ciò che è possibile la natura porta sempre in atto il meglio, dobbiamo concludere che l’uomo non deve la sua intelligenza superiore alle mani, ma le mani alla sua intelligenza superiore. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti.[…] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti.”
Aristotele, De partibus animalium
Sempre secondo Aristotele le mani sono una diramazione del cervello, realizzano ciò che la nostra immaginazione produce. E’ stato dimostrato che le attività manuali, nei bambini, sviluppano maggiormente i collegamenti neuronali, mentre negli anziani coadiuvano il mantenimento della lucidità mentale. Ma quanto dicono di noi le nostre mani? Non ricordo come tenesse le mani mio padre, in ogni caso (fortunatamente) ero troppo piccola per interpretare il linguaggio del corpo. Rammento soltanto che per non mangiarsi le unghie, la sera, seduto in poltrona davanti al televisore, indossava guanti di filo bianchi. Avrei potuto paragonarlo allegramente a Topolino ed invece m’inquietava vedere quelle mani bianche che spiccavano nel buio del salone trafitto dalla luce di una lampada a stelo e di quella emanata dal televisore. Gli dicevo che se non voleva mangiarsi le unghie bastava che non lo facesse. Ero bambina, ma già percepivo il senso del libero arbitrio. Lui non mi rispondeva, interessato ai dibattiti di politica, economia, telegiornali, volgeva lo sguardo per cercare da dove provenisse quel ‘disturbo acustico’ e si rituffava subito nello schermo parlante. Io andavo a letto dopo Carosello, ma non riuscivo a dormire. Avevo paura del buio e di molte altre cose. Le mie notti erano per lo più insonni. Mia mamma, invece, quando era seduta sul divano teneva le mani in grembo, l’una dentro l’altra. Si tenevano compagnia. Una gestualità delicata che mi ha sempre colpito. Le sue mani erano piccole, le dita affusolate, sottili come la pelle che pareva carta velina. Si vedevano le vene blu in superficie, piccoli rivoli che s’inabissavano nelle sue insondabili profondità, nei suoi abissi. Da adulta mi sono accorta che anch’io tenevo le mani come mia madre. I miei strumenti sono simili ai suoi strumenti, servono per scavare, scavare, scavare per poi riposarsi, accoccolate, per cercare conforto l’una nell’altra, soprattutto quando si è tanto cercato di estrarre, disseppellire, senza nulla trovare. E a voi le mani che cosa dicono?





Sono qui…

Foto b©r
Ho lasciato trascorrere “quelle giornate amare, lascia stare… tanto mi potrai trovare qui, con le mie notti bianche…”. Quanta verità nascosta dentro le parole delle canzoni. Divagazioni. Ho lasciato trascorrere del tempo dal 2 novembre di questo anno prima di scrivere. Sulle pagine di Facebook ed Instagram, in quei giorni, sono fiorite immagini di padri, madri, fratelli, sorelle, figli, nonni, amici, parenti alla lunga e alla larga, frasi struggenti, storie e ricordi che in qualche modo ci accomunano. Sono morti. Il 2 novembre di questo anno è arrivato nel bel mezzo di quella che è stata soprannominata la “novembrata romana”, in ricordo delle ben più famose e ricorrenti ottobrate, quando faceva molto freddo in quasi tutta l’Italia mentre Roma riusciva a regalare ancora meravigliose giornate di caldo piacevole. Quest’anno, ovunque, pareva ancora estate ai primi di novembre, le piantine di fragole hanno iniziato una nuova fioritura, così come le rose e l’erba dei prati è verde come non lo è mai stata durante questa lunghissima, estenuante e caldissima estate che ha bruciato natura e persone. Sono andata al cimitero un paio di giorni prima, una mattina insolitamente fredda e umida di nebbia. Una leggera pioggia aveva appena inumidito il selciato e gli occhi dei visitatori. Sono andata prima da mio padre. Come ogni anno non trovo la corsia giusta, ma questa volta ho impiegato meno tempo a trovarlo. L’anno scorso ho preso come riferimento la toilette del cimitero vicino all’entrata, due file più in là. Ti ho trovato lì anche quest’anno e come sempre mi sono stupita nel leggere il tuo nome completo. Ti chiami anche Virginio. Credo di non averlo mai saputo sino a che ho letto la tua lapide, più di dieci anni fa. Ti sei sempre fatto chiamare con un nome corto, cortissimo, tre lettere. Neppure quattro. Papà. Sarebbe stato solo un po’ più lungo, ma mi avrebbe reso felice e… figlia. Soprattutto figlia. Ho depositato la mia pianta di crisantemi gialli, quattro parole in croce, una croce di parole. E poi è stata la volta di mia mamma e mia nonna materna le cui ossa ho trasportato nel bagagliaio della macchina, come in un film con Louis de Funès, per ricongiungerle alle ceneri di mia madre. Un altro cimitero dalla parte opposta della città. Il sole stava per tornare mentre attraversavo il campo antistante la costruzione dove si trova il loro loculo. Quasi tutte le tombe avevano fiori freschi in attesa del 2 novembre, vedi mai che qualche parente alla lontana decidesse di fare un salto al cimitero e le trovasse disadorne. Leggevo i nomi sulle lapidi, le date di nascita e di morte. Uno sguardo veloce alle fotografie. Vecchi, vecchissimi, giovani, giovanissimi. La morte non guarda in faccia nessuno. Arriva e basta. Abiti da sera. Ciclisti. Abiti da sposa. Divise. Motociclisti. Busti interi. Mezzi busti. Foto recenti. Foto antiche. Militari. Costumi da bagno. Vestiti di carnevale. Ognuno era ritratto con il suo abito più bello. “Quando muoio, mi raccomando, metti questa fotografia!”, aveva detto mia nonna durante una delle sue frasi perentorie pronunciate per esorcizzare la morte. Non ho messo quella, nonna. Ne ho scelta una dove eri giovanissima e di una bellezza straordinaria. C’era un discreto viavai nelle corsie del campo, le immagini mi scorrevano davanti agli occhi come i paesaggi da un treno in corsa. Poi ho visto lei. Una signora sulla cinquantina, credo. Non ho voluto guardare a chi stesse dedicando tutte le sue cure, ma mi ha suscitato una tenerezza infinita vedere questa donna affacendarsi intorno a due metri quadrati come se stesse pulendo la Reggia di Versailles. Spostava e rispostava vasi di fiori, piccoli oggetti, fotografie come se stesse aspettando ospiti, per rendere accogliente quello scampolo di terra e cielo al tempo stesso. E poi, poco più in là… una selva di mazzi di fiori attorno alla fotografia di un ragazzo con gli occhiali spessi, la montatura nera, un sorriso incantevole. Abbasso lo sguardo, piegati sotto la fotografia vedo i suoi occhiali, umidi di pioggia, ben ripiegati pronti per guardare meglio i tramonti e le albe di tutti quei giorni che per lui non saranno più. Qualche passo greve come mai, cerco ancora il senso della vita, il senso della morte. Un piccolo fiore stretto nella mano. Ciao mamma, sono qui…
C’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi.
La vendetta

Al tempio c’è una poesia intitolata “la mancanza”, incisa nella pietra. Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere la mancanza: solo avvertirla.
Impagliava gli animali. Si chiama tassidermia, dal greco taxis (ordine) e derma, pelle, disposizione della pelle e si utilizza soltanto questa, appositamente pulita e conciata, poi forgiata su di una sagoma in poliuretano che riprende le forme e le movenze dell’animale quando era in vita. Suo padre impagliava gli animali, su commissione, ma non solo. Il laboratorio dove lavorava sprigionava odore di morte persino dal buco della serratura, dagli spifferi sotto la porta. Un odore nauseante, un misto di sangue, escrementi, la stessa puzza che Yumichan sentì entrando nella camera della nonna ultranovantenne, quella mattina del 15 di agosto, giorno di Obon. Era morta stecchita, gli occhi aperti, sbarrati, inchiodati sulla fotografia del marito, appesa sul muro di fronte. Era morta proprio la vigilia del giorno che aspettava tutto l’anno, quando i defunti lasciano gli antenati per tornare a casa dai loro cari e trascorrere insieme del tempo. In quell’occasione la nonna riusciva anche a mangiare l’anguria, in onore del marito, per il quale accendeva la lanterna che poi appendeva sopra l’uscio della porta, vedi mai che non riuscisse a riconoscere la casa e finisse, per sbaglio s’intende, qualche casa più in là dove abitava Ichimaru, una geisha bellissima che a soli 30 anni, all’apice della sua carriera, si era ritirata, stanca di quel mondo così rigido e restrittivo che le ruotava attorno e la stava stritolando. Da quando era andata ad abitare poco lontana dalla loro casa, nonna Akemi, il cui nome significa bella e luminosa, si era rabbuiata non poco a sentire tutto quel gran spettegolare che si faceva su Ichimaru. Quella mattina del giorno di Obon, la mamma di Yumichan trovò nonna Akemi distesa sul suo letto, avvolta in un kimono leggero dai colori sgargianti come non aveva mai più indossato dopo la morte del marito, avvenuta così prematuramente. Gli occhi erano spalancati e le mani incrociate sul petto. Pareva si fosse messa in posa per un’ultima fotografia. Il piccolo Daiki, il fratellino minore di Yumichan, piangeva a dirotto attaccandosi alle gambe della mamma mentre guardava la nonna attraverso le dita socchiuse della mano con la quale si copriva gli occhi. Nessuno riusciva a calmarlo. Fu la sorella a spiegargli che quella notte il nonno era venuto a prendere nonna Akemi per portarla con sé perché soffriva troppo di solitudine e che la nonna era molto contenta di seguirlo, tant’è che s’era messa il kimono più bello che avesse, quello che indossava quando era una giovane sposa. Poi Yumichan sollevò di peso Daiki e lo portò via perché non stesse a fissare il corpo rigido della nonna e per non sentire più quell’odore terribile che odiava con tutta se stessa e che nemmemo le porte aperte sul giardino riuscivano a stemperare. Non le piaceva il lavoro che faceva il padre, ma soprattutto non sopportava che impagliasse uccelli, attività della quale i suoi clienti non dovevano assolutamente venire a conoscenza. Litigavano spesso proprio per questo motivo e la giovane ‘ribelle’ ogni volta minacciava Shun di spifferare a tutti il suo hobby. Quando riusciva a catturare qualche esemplare che gli piaceva particolarmente, dapprima lo chiudeva dentro una voliera che lui stesso aveva costruito, con le pareti di vetro, per qualche giorno, poi procedeva a tirargli il collo e ad impagliarlo. Yumichan, di notte, quando sentiva che battevano i becchi contro i vetri, nascondeva la testa sotto il cuscino e lo stringeva forte per non sentire quella richiesta di aiuto continua, penetrante, lacerante, ma quando non la udiva più stava anche peggio perché sapeva che il boia li aveva giustiziati. In seguito all’ennesima lite decise di farsi crescere l’unghia del pollice della mano destra che divenne lunga, affilata, simile agli artigli di un rapace. Fu brava a tenerla nascosta, ripiegando il dito all’interno del palmo chiuso in una sorta di pugno. Il giorno dopo la veglia funebre si svolse il funerale. Yumichan indossò il paio di orecchini che nonna Akemi le regalò quando compì venti anni, la maggiore età ed un kimono in seta verde scuro, dello stesso colore dell’ombrellino di bambù e carta di riso dipinta con un motivo floreale. La mano che reggeva il manico era ben visibile, così come quell’unico artiglio che ostentava con fierezza. Aveva un segno sull’occhio sinistro, una specie di graffio, pareva un’unghiata, ma nessuno ci fece caso. Impiccati alle stecche dell’ombrellino tre uccelli dondolavano, lentamente, mentre Yumichan passava davanti alla bara sfidando con lo sguardo suo padre. Questo fu solo l’inizio.
L’opera è di Davide De Agostini ed è esposta sino al 16 ottobre presso la Sala delle Arti di Collegno (Torino) per la mostra Ombre smemori.
Tralci e stralci

Sorrido di quei sorrisi un po’ enigmatici dietro ai quali sono bravissima a nascondere qualunque cosa. Ero bambina e molte persone, incontrandomi, mi dicevano che avevo il sorriso di Monna Lisa. E’ un ritratto stranamente vitale, considerando i ritratti che venivano eseguiti in quei tempi, lo sguardo é ipnotico ed il sorriso sprigiona un’incredibile energia. Giorgio Vasari scrisse di lei che “era una cosa più divina che umana da guardare”. E’ sempre stata diffusa l’opinione che l’espressione della Gioconda fosse di felicità ed invece, secondo una recente analisi di tre neuroscienziati italiani, si tratterebbe di un sorriso “finto”, forzato e ciò sarebbe stato dedotto da un procedimento di “scomposizione” della bocca. Il sorriso parrebbe essere asimettrico. La parte sinistra della bocca risulterebbe essere felice, la parte destra “seria”, “disgustata”, “triste”. Sorrido, di quei sorrisi grazie ai quali sono capace di fuggire lontano, con la mente, con tutta me stessa, lasciando sul posto il guscio vuoto di una noce, il carapace succhiato di un gambero, il bozzolo di una crisalide. Alle mie spalle c’è una vigna di ricordi che non si vogliono staccare, il rumore di un trattore dapprima lontano e poi sempre più vicino e penso che la vita, alla resa dei conti, sia un insieme di tralci e stralci. Pianto nei vasi tralci di edera e di uva americana, di gelsomino e pothos, nella speranza che mettano radici sui muri della mia casa. Speravo che uno, in modo particolare, attecchisse: un tralcio di edera che Pascal ed io estirpammo dal giardino di mio zio, l’ultima volta che abbiamo potuto visitarlo, il giorno del suo funerale, prima che la sua casa diventasse la conchiglia di una chiocciola sfrattata da un alieno, il nido di un cuculo che se ne è impossessato buttando nel vuoto le uova deposte da un altro uccello. E’ morta l’edera, ha resistito un paio di anni e poi è morta. Tralci dai quali non mi voglio staccare. Ricordo che quando nacque mia figlia continuavo a medicare il mozzicone del cordone ombelicale che era ormai ridotto ad un paio di centimetri quadrati, essiccato, ancorato all’ombelico per un lembo minuscolo, ma io coprivo con la garza la reliquia, quell’ultimo legame tra la navicella spaziale e la terra madre. Soffrivo per quel distacco, naturale e necessario. Tralci. E poi ci sono gli stralci. Depennamenti. Eliminazioni. Esclusioni. La paura di non essere amata per ciò che realmente sono, ma per ciò che do. E nel momento in cui smetto di dare, svanisco come un ologramma, come quel mozzicone di cordone ombelicale che si staccò una mattina di uno dei mesi di gennaio più freddi che la storia ricordi.
La tavoletta
Siamo come le case. Siamo case. Le cose ci abitano, le persone ci abitano, per un attimo, un’ora, una vita intera. Le fondamenta sulle quali ci costruiamo, giorno dopo giorno, sono imprescindibili per ancorarci a terra ed assorbire i carichi che la vita poserà, più o meno delicatamente, sulle nostre spalle. Poi, poco alla volta, si aggiungono elementi, esterni ed interni, che possono abbellire, impreziosire oppure peggiorare il nostro stato. Nella realtà dei fatti, potremmo tranquillamente reggerci su solide basi e poco, pochissimo altro. La casa che sono, per una serie di circostanze, non è stabile come avrei voluto. Assomiglia ad una villetta di campagna dove trascorsi, anni fa, un paio di estati. Esteriormente era molto graziosa, circondata da un piccolo giardino inselvatichito, dotata di un bellissimo patio dove mi piaceva leggere, soprattutto al tramonto. Un giorno, mentre eravamo tutti riuniti intorno al tavolo da pranzo, ci siamo accorti che il nostro cane, seduto accanto a mia mamma a pietire bocconcini di cibo, non riusciva a stare fermo, scivolava all’indietro sul pavimento di marmo lucido. Ridemmo prendendo in giro Benji, senza dare troppo peso a questo particolare ed attribuendo il fatto a certi suoi insoliti e non rari comportamenti. Pochi giorni dopo, una violenta scossa di terremoto ci svegliò nel cuore della notte. Uscimmo tutti dalle case riversandoci sulla piccola piazza del paese, chi in pigiama, chi in camicia di notte e, mentre i bambini saltellavano come se fosse una festa, aspettavamo altre scosse che fortunatamente non seguirono. Il giorno successivo, chiedemmo ai pompieri di verificare che non fossero avvenuti danni o cedimenti strutturali importanti che potessero rendere insicura la nostra casa delle vacanze. Scoprimmo in quel frangente che l’edificio era praticamente sganciato dalle fondamenta, non a causa del terremoto che in realtà aveva solo causato alcune piccole crepe sui muri, ma il terreno stava lentamente scivolando a valle causando un lieve, ma costante spostamento della struttura. Benji, poverina, non riusciva a stare seduta perchè il pavimento non era in piano! Ecco, questa è la casa che sono, al di là dei terremoti che colpiscono tutti, prima o poi. E ciò che ci accade nella vita contribuisce a rafforzare od indebolire queste nostre fondamenta. Un esempio? Ero bambina, avrò avuto all’incirca cinque, sei anni. Frequentavo con i miei genitori il Circolo della Stampa che aveva ed ha tuttora una bellissima piscina olimpionica. Avevo un paio di amichette con le quali giocavo instancabilmente dal mattino alla sera, soprattutto con una della quale ometto il nome per rispetto, forse. Lei sapeva nuotare, io non ancora, dunque rimanevo dove l’acqua era più bassa mentre lei si allontanava mostrandomi le sue prodezze. Ad un certo punto prese due tavolette, una per ciascuna e mi sollecitò a seguirla dove non si toccava rassicurandomi che mi sarebbe stata accanto. Ero molto emozionata e contenta di avventurarmi dove non avevo mai osato. Ogni tanto guardavo il fondo con un po’ di timore, il colore dell’acqua si faceva man mano più intenso, quasi blu. Arrivate quasi in prossimità della buca dove l’acqua era più profonda per permettere i tuffi dal trampolino, la mia “amica” lasciò la sua tavoletta e gridò: “Dai, adesso nuota, lascia la tavoletta!” e con un gesto fulmineo la fece scivolare via da sotto le mie mani. Poi si allontanò con poche bracciate mentre io colavo a picco. Non so ancora oggi come abbia fatto, i corpi dovrebbero galleggiare, avrei dovuto, potuto urlare e chiedere aiuto, invece ho camminato come un palombaro sul fondo sino a che non è emersa la testa e poi il resto del mio corpicino che tossiva sputando acqua e lacrime. Credo di essere una miracolata. La mia “amica” era sparita, la bagnina accortasi in ritardo di quanto era accaduto mi prese in braccio e mi portò a bere un bicchiere di latte Verbano per disintossicarmi dal cloro ingerito. Ecco, la mia fiducia nelle persone affonda le sue radici in quella tavoletta, data e tolta infinite volte, in quelle fondamenta sganciate che scivolavano a valle, pian piano, ma inesorabilmente.

Imparai a nuotare qualche anno più tardi, nel frattempo scelsi sempre piccole pozze d’acqua, ma ciò non mi mise al riparo da quelle mani che danno e tolgono, con indifferenza e superficialità…