– Che pace, però, c’è qui… vero?
– Beh, ci credo, siamo in un cimitero!
E siamo scoppiate a ridere come se il tempo non fosse passato, come se indossassimo ancora i jeans a zampa di elefante e la vita alta (tornati di moda più volte) che compravamo insieme, la maglietta corta appena sopra l’ombelico, i capelli lunghi appena sotto le scapole, la vita tutta da decidere. Noi che, manco a farlo apposta, avevamo lo stesso nome, lo stesso soprannome, i fidanzati omonimi come le nostre storie che pareva camminassero a braccetto perché potessimo consolarci a vicenda, quando ci sembrava che le nostre certezze andassero a rotoli. Ieri il cielo era grigio di nuvole e pioggia che aspetta da mesi a bagnare la terra, ogni volta ci ripensa e torna indietro. Per molti andare al cimitero è un atto dovuto, per altri una consolazione, per noi due un appuntamento annuale che ci consente di trascorrere, da sole, una manciata di ore durante le quali ripercorriamo un po’ le nostre vite come i vialetti del cimitero, andando avanti, indietro, e poi di nuovo avanti perché ogni volta non ricordiamo bene la strada nel dedalo di vie e zone e sottozone. Andiamo a trovare le nostre nonne e madri, ricordandoci l’un l’altra com’erano realmente, come ci apparivano e come adesso, in fondo, cominciamo a ritrovarci nei tratti somatici, nelle parole che ci dicevano, nelle loro malinconie per noi incomprensibili perché a 16, 17 anni non si ha ancora la percezione che la vita è poco più di una fucilata. Passeggiamo l’una accanto all’altra, con due mazzolini di fiori freschi stretti tra le mani, e parliamo come quando ci confidavamo i nostri segreti tra una versione di latino e una lezione di filosofia da ripetere a voce alta. Poi, all’improvviso, rimaniamo incantate da una moltitudine di papaveri rossi che sono cresciuti ribelli nei campi dove c’è poco passaggio e l’erba è alta, vicino a quel tuo nonno che non si capisce più dove sia andato ad abitare sino a che troviamo una lastra di pietra:
– Guarda… è qui! Il cognome è lo stesso, si legge anche il nome, aspetta… G i u s e p… p i n a
– Eh, peccato che mio nonno si chiamava Giuseppe
ed eccoci di nuovo lì, davanti al Liceo, belle come il sole a ridere e canticchiare una canzone di Guccini e qualche strofa di De André.
– Dai, facciamoci una foto con i papaveri… sono splendidi!
– Va bene, ma non la facciamo vedere a nessuno, non la pubblichiamo!
– Certo! E’ nostra, solo nostra! Dai… sorridi…
“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia all’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi”